La narrazione prevalente sulle ricette per combattere il cambiamento climatico contempla a mio modo di vedere alcune vistose omissioni, anzi dei veri e propri tabù, questioni a dir poco spinose su cui si preferisce glissare per non pregiudicare – così almeno ci viene detto – il successo comunicativo della necessaria opera di informazione, così da evitare fenomeni di rigetto nei riguardi di messaggi scomodi. Si afferma in sostanza che la risposta alla crisi climatica può circoscriversi al modo in cui produciamo l’energia, e che dunque la soluzione al problema risiede nella progressiva sostituzione dei combustibili fossili inquinanti con le nuove fonti rinnovabili che non danno luogo ad emissioni dannose per il clima. Sia chiaro, non c’è dubbio che questo sia, tecnologicamente parlando, il nocciolo delle strategie di mitigazione da attuare. Quel messaggio, tuttavia, il più delle volte sottintende in modo piuttosto subdolo che la rivoluzione energetica in arrivo non intaccherà gli irrinunciabili standard di vita della parte ricca del mondo, ma anzi potrà incrementarli in virtù della disponibilità teoricamente illimitata dell’energia che ci viene fornita da sole e vento. Dunque, nessuna rinuncia in vista, nessuna privazione. Del resto, che il tenore di vita occidentale simboleggiato dall’American way of life non sia negoziabile lo aveva detto chiaro e tondo già nel 1992 George Bush padre all’apertura della Conferenza di Rio.
Se però si ha l’onestà intellettuale di analizzare con spirito scevro da facili ottimismi le mille implicazioni e i mille vincoli che soggiaciono alla necessaria trasformazione del modo di produrre ed usare l’energia, ci si rende conto che l’auspicato scenario di un’economia ad emissioni zero non potrà mai essere un bengodi sovrabbondante di energia, ma dovrà al contrario inevitabilmente comportare limitazioni alla nostra libertà d’azione e persino, verosimilmente, vere e proprie privazioni. Ad esempio, una delle conseguenze sottaciute dell’intermittenza delle nuove fonti di energia (il sole non splende di notte, le pale eoliche non girano in assenza di vento) è che per adeguarci ad esse dovremo imparare ad usarle quando sono disponibili, e non più quando ci fa comodo. I nuovi sistemi di accumulo riusciranno ad attenuare questa limitazione, consentendoci magari di non restare al buio la sera, ma difficilmente potranno eliminarla del tutto. Un’altra implicazione di una seria politica che metta al bando le fonti fossili sarebbe il drastico ridimensionamento dei viaggi aerei, perlomeno fintanto che non saranno stati superati gli enormi problemi che impediscono l’uso di propellenti alternativi a quelli di origine fossile. Ma tutto ciò non viene detto, neanche da parte di chi è animato dalle migliori intenzioni; di tutto ciò non è bene che si parli se non si vuole far sì che l’interlocutore giri la testa dall’altra parte. Ma siamo sicuri che occultare una porzione di realtà sia la strategia giusta per smuovere le coscienze?
A ben vedere, la questione è molto più grande di quanto possa risultare dagli esempi appena descritti. Basta passare in rassegna le nostre comuni attività quotidiane per rendercene conto: contrastare individualmente con coerenza la minaccia del cambiamento climatico vuol dire dover ripensare a pressoché tutte le abitudini acquisite nel corso della nostra vita, che nulla e nessuno hanno mai osato mettere in discussione. Il cibo che mangiamo, l’acqua che beviamo, le merci che acquistiamo, il modo in cui ci spostiamo, il lavoro che svolgiamo, le case che abitiamo: in (quasi) tutto ciò che facciamo da questa parte del mondo risuona l’eco di gas serra rilasciati in misura maggiore di quanto i sistemi naturali siano in grado di assorbirli, gas che vanno quindi ad accumularsi in atmosfera. Ogni nostra scelta, consapevole o inconsapevole, si riverbera in qualche misura sui delicati equilibri ecologici facendoli vacillare. E tuttavia non tutte le scelte sono ugualmente impattanti, ed ognuna di esse richiederebbe un attento discernimento. Ma proprio perché è la totalità del nostro agire ad esserne coinvolta, riuscire a soppesare l’impronta ambientale delle singole azioni che compiamo può diventare un esercizio improbo ed altamente stressante per la nostra psiche, una vera e propria fatica di Sisifo dura da sostenere per la maggior parte di noi. Un tale sforzo, nel confuso ed agitato contesto in cui ci troviamo a vivere, è destinato ad essere rigettato a priori dalle moltitudini di individui che leggerebbero una tale ossessiva tensione verso la sostenibilità come una privazione di fatto delle libertà individuali. Ed in effetti, nel sentire comune cos’altro sono la riduzione della miriade di acquisti voluttuari e dei consumi in genere, la rinuncia a mangiare carne tutti i giorni, ad usare l’auto come e quando si vuole, se non delle indebite privazioni di libertà individuali ritenute intoccabili?
Dunque, ecco il punto, ecco il più inconfessabile dei tabù di cui parlavo all’inizio: se affrontare il cambiamento climatico e la crisi ecologica vuol dire privare le persone della propria libertà, come possiamo sperare di vincere la sfida? Quale schieramento politico potrà mai pensare di prevalere propugnando una sia pur parziale rinuncia alle nostre libertà in cambio di un futuro vivibile per le future generazioni? La destra, che ha costruito le proprie fortune politiche proprio promettendo ogni sorta di libertà ed esaltandola come valore assoluto, di sicuro non lo farà mai. Ma a mio giudizio le cose non sono molto diverse, ahimè, per una sinistra imbevuta del mito del progresso illimitato, che pur proclamandosi ambientalista non fa che scimmiottare la destra continuando ad inseguire la pancia dell’elettorato.
Dobbiamo essere grati ad Amitav Ghosh, lo scrittore indiano che con il suo recente saggio La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile ha avuto il coraggio di prendere di petto questo scomodo argomento. Secondo Ghosh, il cambiamento climatico mette in crisi l’idea stessa di libertà per come essa si è fatta strada nell’era moderna: fin dall’illuminismo si è infatti diffusa la convinzione secondo cui solo gli uomini o i sistemi da essi creati possano rappresentare un ostacolo al dispiegarsi della libertà, intesa come anelito universale verso cui la Storia è tesa. Il pensiero che la Natura possa configurarsi come un vincolo esterno che limiti la libertà dell’uomo costringendolo a fare i conti con la finitezza delle risorse che lo sostentano e con la dipendenza dai sistemi ecologici è sempre stato estraneo alla visione filosofica e storiografica di cui è impregnata la nostra cultura.
Per fortuna, tutto scorre, e la cultura come le idee che la animano continueranno ad evolversi così come è sempre accaduto: questa volta però devono farlo in fretta, perché uragani, alluvioni, incendi, siccità estreme e tutte le altre manifestazioni non-umane frutto dalla violenza esercitata verso il nostro pianeta si stanno ripercuotendo contro le vite presenti e future con sempre maggiore potenza distruttiva, mettendo a repentaglio la nostra stessa esistenza prima ancora che la nostra libertà. Per questo è necessaria una maturazione collettiva verso una nuova concezione che, senza rinunciare alla liberazione dall’oppressione millenaria che comprime il dispiegarsi delle più autentiche potenzialità umane, ci traghetti verso una nuova idea di libertà, in grado di tradursi in una rinnovata attenzione creativa verso la natura e in una interiorizzazione delle nostre aspirazioni, che per non impattare sugli ecosistemi dovranno sempre più assumere una connotazione immateriale.
“Libertà o morte!” è stato per secoli il solenne proclama che interi popoli hanno fatto proprio per spezzare le catene della schiavitù e il giogo dell’oppressione. Quel motto potrebbe tristemente tramutarsi in “Libertà è morte” se continueremo a barattare il malato sentirsi liberi di oggi con la tetra prigionia del domani in cui si troveranno a vivere i nostri discendenti, fatta di inenarrabili stenti e privazioni non più del superfluo ma dell’essenziale.