La vista dalla finestra del mio ufficio è dominata da tre alberi con lunghe foglie composte e dal fusto liscio ed esile, uno dei quali alto circa 10 metri. Le piante affondano le proprie radici nell’intercapedine alta e stretta fra il muro di cinta della palazzina e un capannone artigianale dismesso. È evidente che nessuno può mai averle piantate in un posto simile e che si tratta dunque di vegetazione spontanea. Ogni volta che mi affaccio resto stupito dalla potenza della natura e dalla straordinaria capacità di adattamento di certe specie vegetali.
Di recente, animato da una sorta di sacro fuoco naturalista, ho deciso di approfondire le mie conoscenze (per la verità quasi nulle) di botanica, ed ho cercato di saperne di più su quegli alberi così peculiari. Senza per la verità scoprire nulla di eclatante. La pianta che fa da sfondo verde alle mie giornate lavorative è, banalmente, l’ailanto (Ailanthus altissima), specie originaria della Cina e oggi ampiamente diffusa in Europa, in modo particolare nei centri abitati. Viene anche chiamato albero del Paradiso per la sua eccezionale abilità di svilupparsi velocemente in altezza per cercare la luce. Gli appassionati di giardinaggio la conoscono come una delle più temibili specie infestanti, per la sua capacità di colonizzare ogni spazio disponibile e di diffondersi in modo capillare ed invasivo grazie all’elevatissimo numero di polloni che rilascia. Compete efficacemente con le specie autoctone fino a prenderne il sopravvento ed è di difficile eradicazione, perché ha radici superficiali che ricacciano con grande facilità. L’ailanto la fa da padrona nelle terre di nessuno, nelle aree marginali dimenticate, lì dove domina il degrado, e in tutti i luoghi in cui la cura del verde è assente. È considerata la specie invasiva con il più alto potenziale distruttivo del patrimonio archeologico, grazie al suo potere demolitore delle opere murarie, che sgretola poco alla volta per azione del suo apparato radicale. Per quanto ho potuto vedere, Roma è letteralmente invasa dagli ailanti (e non è un bel vedere), ed immagino lo stesso accada in molte altre città italiane.
Da un punto di vista strettamente ecologico, il problema delle piante alloctone infestanti risiede nel fatto che esse introducono una grave perturbazione nel delicato equilibrio creatosi nel corso dei millenni fra le specie endemiche, costituendo dunque una minaccia per la biodiversità vegetale. Eppure, c’è da chiedersi fino a che punto se ne debba contrastare la diffusione: se si pensa alle molteplici situazioni nelle quali è richiesto di consolidare terreni scoscesi o franosi (tipico è il caso delle scarpate ferroviarie o stradali), specie resistenti come l’ailanto possono svolgere una funzione importante. E poi, si tratta pur sempre di carbonio sottratto all’atmosfera, e Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di verde nelle nostre città spoglie, assolate e inquinate.
Oltre all’ailanto, altre piante invasive a crescita rapida hanno alterato l’equilibrio floristico delle nostre terre: una fra tutte è la robinia (Robinia pseudoacacia, erroneamente chiamata acacia), che così spesso ha rimpiazzato i meravigliosi querceti delle vallate italiane, rasi al suolo dall’espansione selvaggia delle città e dalla fame di legname delle passate generazioni.
Ma come è noto, non solo nel regno vegetale assistiamo alla preoccupante invasione di specie infestanti (non necessariamente aliene). Di esse si possono infatti citare innumerevoli esempi nel regno animale, per ognuno dei quali invariabilmente si scopre che alla radice del disequilibrio ecologico vi è l’uomo. Nei boschi collinari e montani appenninici, ad esempio, lo sterminio dei predatori carnivori apicali come il lupo ha condotto frequentemente alla proliferazione incontrollata di specie come il cinghiale o il cervo, a danno dell’equilibrio complessivo dell’ecosistema.
Se però ci sforziamo di ripudiare per una volta il nostro innato antropocentrismo, non esiteremo ad individuare la più infestante, invasiva, diabolica, tossica specie vivente mai apparsa sulla Terra dall’era dei grandi rettili: l’Uomo. Sono i freddi, agghiaccianti numeri a testimoniarlo: si stima che oggi il 97% della biomassa di vertebrati presente sulle terre emerse del pianeta sia costituita da Homo sapiens e da un pugno di specie animali da lui addomesticate e a lui asservite (per lo più bovini, suini, ovini e pollame). Tutto il resto, ovvero la stupefacente ricchezza della fauna selvatica, elefanti compresi, è ridotta ad uno striminzito 3% in peso, cioè nulla rispetto a poche migliaia di anni fa quando surclassava la massa umana e degli animali domestici da 10 a 100 volte.
Cos’altro è una tale soverchiante supremazia quantitativa, conquistata peraltro in un arco temporale brevissimo su scala geologica (con un una clamorosa impennata nell’ultimo secolo), se non un’invasione infestante di una sola specie animale a danno di tutte le altre? Come si può pensare che un simile squilibrio non abbia un impatto devastante sulla salute degli ecosistemi terrestri? Peraltro il confronto quantitativo, già di per sé allarmante, è corroborato dall’analisi qualitativa, perché anche la diversità di ciò che è rimasto della fauna selvatica è in pauroso declino, segno incontrovertibile della sesta estinzione di massa che sta progredendo a ritmi vertiginosi.
Dove ci porterà tutto ciò? Se per i perdenti il destino sembra segnato, cosa hanno da temere i vincenti? Partiamo dall’ailanto: come ogni specie infestante, questa pianta deve il suo straordinario successo alle capacità di adattamento ai più disparati ambienti e alla resistenza alle avversità. Queste caratteristiche le hanno permesso di conquistare nuovi habitat soppiantando i competitori. In questo, l’ailanto ha trovato proprio nell’uomo un alleato formidabile quanto inconsapevole: disinteressandosi del verde, l’Homo oeconomicus ha lasciato che le specie vegetali più resilienti si impossessassero degli spazi abbandonati dove non è possibile generare alcun profitto. Nel contesto italiano di inarrestabile deindustrializzazione, l’ailanto sembra dunque destinato ad un futuro radioso.
E l’uomo? Che ne sarà della nostra specie, sin qui invincibile anche grazie a molte delle qualità – resilienza in primis – che lo accomunano con l’ailanto? Nessuno può dirlo. Di certo, l’uomo ha un pericoloso tallone d’Achille che l’ailanto non ha: è molto esigente. C’è dunque il rischio che non si accontenterà di completare lo sterminio delle specie animali selvatiche così come delle foreste primigenie e di tutto ciò che ostacola il suo cammino. Cosa potrà accadere a quel punto, non oso immaginarlo…
Anzi, a pensarci bene l’Uomo ha un altro tallone d’Achille: dimentica troppo facilmente. Dimentica ad esempio che i vincenti di oggi sono, quasi sempre, i perdenti di domani.